Routine

Posted by on Ott 1, 2014 in Me, myself | 13 comments

Sono figlia della precarietà, non nel senso che faccio parte di quella generazione di lavoratori che campano a rimborsi spese e visibilità, cioè, anche. Io però sono stata fortunata, il lavoro ce l’ho, il posto fisso è abbastanza fisso da farmi firmare debiti a scadenza ventennale, non ho mai attraversato il momento di gavetta da fotocopie e caffè, non ho mai passato momenti di disoccupazione in cui non sapevo come sbarcare il lunario.
Però sono figlia della precarietà, dicevo, nel senso che credo di non avere parenti stretti che abbiano un lavoro sicuro, non li ho mai avuti. Sono del sud e al sud, spesso (per fortuna non sempre), si tira a campare, di espedienti, di lavoretti, di nero. Sono vissuta così, con la chimera del posto fisso, dove stare dietro allo sportello di un ufficio postale è considerato un terno al lotto, dove se il tuo culo raggiunge una qualsiasi scrivania di un ufficio comunale, sei sistemato a vita.

Insomma, sono cresciuta con la convinzione che avere un lavoro, un lavoro qualsiasi, ma sicuro, fosse quello che desideravo. Tanto la tua vita mica finisce in ufficio, mi dicevo. Tanto puoi coltivare i tuoi interessi fuori. Tanto se trasformi le tue passioni in lavoro, va a finire che non te le godi più, ti diventano pesanti. Tanto poi è vero, magari ti diverti, fai quello che avresti voluto fare, ma alla fine del mese guardi il conto e piangi.

Queste sono le giustificazioni che mi do ancora adesso, quando torno a casa dopo una giornata in ufficio, l’ufficio che mi ha vista crescere, laurearmi, essere stressata per gli esami, felice per il matrimonio, disperata per la paura di non farcela, incazzata, anche. Nove anni di cose che sono successe fuori e dentro.

Nove anni, di cui almeno gli ultimi tre passati a rimuginare, a pensare che forse ho sbagliato qualcosa a monte, mentre portavo avanti tutto il resto, gli interessi, la vita, le cose, le persone. Forse ho fatto mie le paure altrui, la paura di osare, di desiderare di più, di meritare il meglio. Ho fatto mio quel modo di farsi stare bene le cose, di farsele bastare, di crogiolarsi nelle situazioni di comodo, di dire devo cambiare ma ci penso domani.

Intanto, continuo a fare quello che faccio da anni con la stessa energia e volontà che ho sempre avuto, come se fosse il primo giorno (più o meno). Non so come ci riesca, non ho mai avuto paura della routine, ho troppe cose in testa e nello stomaco per temere i giorni tutti uguali, i miei non lo sono mai.
Però, ecco, di spegnermi un po’ ho paura. Quello sì.

13 Comments

  1. che bella riflessione. la sento vicina, anche se, a differenza tua, la routine non solo mi atterrisce ma cerco proprio di scansarla il più possibile.

    • Io invece sono abbastanza abitudinaria di mio. E poi la routine la lascio fuori, finché ci riesco non mi lascio invadere :)

  2. E’ per il grande rispetto che non inizio con i miei “ma dai”. Per il grande rispetto e per il fondato timore che mi si potrebbe ritorcere contro. (Bel post)

    • Molto probabilmente sarebbe un “ma dai” boomerang :D
      (grazie)

  3. Il titolo contrario di questo post potrebbe essere “In-Certo” percorso.
    In cui anche l’incerto diventa routine. E credo sia, dalla notte dei tempi, quello che accade al sud. Non ovunque e per chiunque ovviamente e per fortuna.
    Poi c’è chi non si accontenta. Né del certo e manco dell’incerto , laddove esistono l’una o l’altra cosa. Ma vi sono disegni più ampi in cui si realizzano quadri dalle cornici di inestimabile valore. E se tanto mi dà tanto… ;)

    • Eh, se tanto ti dà tanto, vediamo che disegno sarà :D

  4. La routine è una sensazione, non un fatto. E’ un sentimento. Se tu oggi, dopo nove anni, hai ancora le stesse energie che avevi all’inizio, e fai le cose con lo stesso spirito, la tua non è affatto routine. La routine è un peso sul cuore che ti fa aprire gli occhi la mattina e pensare “oddio un altro giorno sta per cominciare”. La routine è una trappola dalla quale non riesci a uscire pur volendolo, a causa di fattori al di fuori del tuo controllo. Ma è SEMPRE qualcosa che viene da dentro. Anche se i fattori condizionanti sono esterni.
    Quindi tranquilla. A voja a magnà patate, prima che te spegni, a ci’… (mi si perdoni il romanesco… :D)

    • Il romanesco, lo sai, è uno dei miei punti deboli :D

  5. Anche stavolta mi trovo in sintonia per via di tanti aspetti che ci accomunano. Ho pure io un lavoro da ufficio che hai il pregio di non essere monotono. Infatti, forse solo sulla routine non potrei seguirti, ma basta guardare molti miei amici o parenti per rendermi conto di quanto debba apprezzare ciò che ho e che comunque nessuno mi ha regalato.

    • Già, quello che c’è fuori fa veramente paura :)
      Tra l’altro, non so mica che lavoro fai. Pensavo di saperlo e invece no.

      • Veramente non so nemmeno io che lavoro faccio…

  6. È che abbiamo ereditato le paure della generazione che ci ha messi al mondo.
    E queste paura ci vanno strette.
    Io non ce la faccio proprio a pensare che il posto alla Posta possa essere la mia massima aspirazione.
    Senza biasimare chi per mangiare s’è fatto davvero il mazzo credo abbiamo il dovere di metterci a sognare. E poi si sa che quando si fanno certe cose, il rischio è quello di prendere il volo…

    • E pure di spiaccicarsi a terra, ma a volte ne vale la pena ;)

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